Scoperte nella schizofrenia alterazioni associate ad allucinazioni verbali
resistenti
GIOVANNA REZZONI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 29 maggio 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La schizofrenia, considerata la forma più
grave di psicosi per l’evoluzione cronica ingravescente dei processi
neuropatologici che causano un progressivo deterioramento cognitivo, pone
ancora molti quesiti irrisolti all’attenzione dei clinici, soprattutto per la
presenza costante di deliri e allucinazioni in forme mediamente più gravi e
resistenti alla terapia di quelle dei disturbi psicotici di impronta clinica
affettivo-umorale come l’eccitazione maniacale e il disturbo bipolare.
Nella pratica clinica si tende ormai da qualche
decennio a seguire, nella concezione della psicosi, il modello di scuola
americana che la riduce alla presenza di deliri e allucinazioni non dovuti all’assunzione
di sostanze psicotrope o a cause organiche, applicando in modo superficiale i
criteri diagnostici del DSM-5 e spesso sottovalutando tutti gli altri aspetti,
inclusa l’analisi delle prestazioni logiche, che consente di accertare la progressiva
compromissione delle abilità cognitivo-strumentali tipica della schizofrenia.
Questo ha portato a una rilevante crescita degli errori diagnostici, ossia a un
elevato numero di pazienti con disturbi meno gravi diagnosticati di
schizofrenia[1].
Tralasciando questo pur grave problema, che attiene allo scadimento della
qualità dell’insegnamento nella formazione degli psichiatri, possiamo
registrare per controparte positiva la ormai rara, e limitata a realtà di
piccole province prive di presidi medici psichiatrici, mancata rilevazione
diagnostica di casi di psicosi schizofrenica.
Tale accresciuta capacità conoscitiva, per dirla con
i termini dell’epidemiologia psichiatrica, ha posto in evidenza un problema che
ha assunto di recente dimensioni numeriche considerevoli: la quota di pazienti
diagnosticati di disturbo schizofrenico che presenta allucinazioni uditive
di tipo verbale resistenti al trattamento (TRAVH, da treatment-resistant
auditory verbal hallucinations).
Posto ormai in secondo piano il problema dell’invalidità
per cause psichiche, al centro dell’attenzione post-diagnostica è oggi la
sintomatologia resistente al trattamento. In particolare, le TRAVH sono oggetto
di studio, perché la loro patogenesi non è stata ancora definita. In linea
generale, si tende a cercare il nesso fra alterazioni molecolari e disfunzioni
di circuito che sarebbero responsabili di tutta la base neuropatologica della
schizofrenia, della quale farebbe parte la specifica alterazione responsabile delle
allucinazioni e, in particolare, delle allucinazioni uditive, che costituiscono
nella stima percentuale classica il 60% di tutti i sintomi allucinatori presenti
nei pazienti schizofrenici e, in massima parte, consistono nell’esperienza di
udire una voce.
Al di là della classificazione sistematica e dell’interesse
semeiotico per la discriminazione tipologica, le voci udite nella propria testa
costituiscono spesso un vissuto di sofferenza impressionante, che talvolta
prostra il paziente e lo induce a tentare soluzioni disperate per porre fine al
sintomo. È vero che alcuni intrattengono una sorta di “rapporto intersoggettivo”
con le voci e che qualcuno si lamenta di non aver più sentito l’allucinazione,
sentendone la mancanza come di un amico, ma si tratta di casi rari; per la
maggior parte dei pazienti, l’esperienza è negativa e va dal fastidio alla
paura, dall’innesco di interpretazioni deliranti all’ossessione.
Nonostante non si abbia ancora conoscenza del
meccanismo patologico alla base delle allucinazioni, numerose osservazioni
hanno rilevato differenze tra le persone diagnosticate di schizofrenia che
presentano TRAVH e quelle che non le presentano. Su questa base si cercano
elementi fenotipici e caratteri morfologici cerebrali macro e microscopici che
possano indirizzare lo studio analitico delle differenze allo scopo di individuare
dei marker se non dei veri e propri processi responsabili del fenomeno
sintomatologico.
Frederic Sampedro e colleghi hanno rilevato,
osservato e caratterizzato i cambiamenti macro-strutturali della materia grigia
in pazienti schizofrenici che presentavano TRAVH.
(Sampedro
F. et al., Grey matter microstructural alterations in
schizophrenia patients with treatment-resistant auditory verbal hallucinations.
Journal of Psychiatric Research 138:
130-138, 2021).
La provenienza
degli autori è la seguente: Biomedical Research Institute (IIB-Sant Pau),
Barcelona (Spagna); Biomedical Research Networking Centre in Neurodegenerative
Diseases (CIBERNED), (Spagna); Psychiatric Department, Institute of Biomedical
Investigation-Sant Pau, Hospital of the Holy Cross of Sant Pau; Autonomous University
of Barcelona (UAB), Department of Psychiatry and Forensic Medicine, Barcelona
(Spagna).
I problemi affrontati dallo studio
qui recensito pongono in gioco la conoscenza relativa alle cause delle psicosi
e al modo in cui le alterazioni cerebrali producono la disfunzione che altera
nel soggetto la consapevolezza di sé e del mondo – che appaia o no, che risulti
sempre e a chiunque evidente o emerga solo da una sapiente conduzione del
colloquio psichiatrico – e induce sintomi positivi, quali
deliri e allucinazioni, sintomi negativi,
come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi
cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o
inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie
di moto. E per il lettore non specialista è opportuno riportare alcune nozioni sull’argomento
a scopo introduttivo, che traggo dall’articolo di Giovanni Rossi dello scorso
20 marzo[2].
“Due anni fa ho ricordato un modello neuroevolutivo della schizofrenia[3] attualmente oggetto di insegnamento
in molte facoltà mediche di tutto il mondo e proposto per la prima volta da Keshavan
nel 1999: durante l’embriogenesi noxae
evolutive portano alla displasia delle strutture costituenti alcune specifiche
reti neuroniche, causando in tal modo i segni premorbosi cognitivi e
psicosociali; durante l’adolescenza, un’eccessiva eliminazione di sinapsi
determina un’iperattività dopaminergica fasica e precipita la psicosi. Keshavan
nota che, dopo la manifestazione clinica della malattia, le alterazioni
neurochimiche possono condurre a processi neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo modello è dato dal “sostegno” ricevuto da
numerose evidenze sperimentali. In realtà, si tratta di una ricostruzione
ragionevole e coerente con i dati dai quali è stata desunta, e nulla esclude
che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica rispetto all’esigenza di
capire perché e come le “noxae” causino una displasia responsabile
di quei sintomi precoci e perché si determini una perdita di sinapsi che causa
iperfunzione dopaminergica[4].
Proprio il legame tra fattori genetici e meccanismi
patogenetici potrebbe aprire la via per la comprensione anche del ruolo e del
modo in cui intervengono i fattori ambientali. Chiarire questi aspetti, almeno
in via preliminare, potrebbe consentire di risolvere alcuni problemi dell’insegnamento
della clinica psichiatrica delle psicosi”. In proposito, io avevo fatto notare le
contraddizioni del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric
Association:
“Nel DSM-5 si riporta un forte contributo di fattori
genetici all’eziopatogenesi della schizofrenia ma, subito dopo, si legge dell’assenza
di storia familiare di psicosi nella maggior parte dei casi[5]. Al contrario,
nell’edizione precedente si citano dati desunti dagli studi epidemiologici
maggiori di quegli anni, che riportano una probabilità di sviluppare schizofrenia
di 10 volte superiore alla popolazione generale per coloro che abbiano un
parente biologico di primo grado affetto, e un tasso di concordanza fra gemelli
monozigoti più elevato di quello registrato fra gemelli dizigoti”[6].
La via da percorrere è sicuramente lunga, ma alcuni
gruppi di ricerca hanno cominciato a compiere i primi passi prendendo le mosse
dallo splicing alternativo di geni di rischio per la schizofrenia, quali
DRD, GRM3 e DISC1, sebbene le caratteristiche di questo processo rimangano in
molti casi ancora oscure. Nella citata recensione del 20 marzo si può legger il
contributo sperimentale a sostegno di questa ipotesi patogenetica fornito da Chu-Yi
Zhang e colleghi.
Per avvicinarsi al problema del rapporto tra patologia
e sintomatologia, si riporta qui di seguito un’introduzione alla clinica della
schizofrenia.
“La schizofrenia, che interessa l’1% della popolazione mondiale, costituendo
una delle maggiori cause di disabilità mentale, è la più grave delle
alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita di un paziente psichiatrico,
dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età adulta fino alla morte, di
dieci anni più precoce della media nella popolazione generale. La
concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si deve al grande
nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal caso di uno
studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più semplici dopo la
comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti con un simile
decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per questo elemento
che gli parve caratterizzante, propose la definizione diagnostica di demenza
praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto relativo al limite cognitivo, poi per
decenni trascurato, soprattutto per l’influenza delle teorie psicodinamiche
sulla genesi del disturbo, che attribuivano a conflitti inconsci lo sviluppo di
un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione del fondamento neurobiologico
cerebrale, necessario anche per i più elementari processi di estrazione di
significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione, deduzione,
riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[7], che introdusse il termine “schizofrenia”
per indicare la frequente scissione (schizo-) nello psichismo e, in
particolare, la separazione del tono affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa
nella comunicazione, aveva ben presente il difetto intellettivo che peggiorava
col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli psichiatri era concorde nel ritenere questo
quadro psicopatologico la conseguenza di una malattia del cervello con una forte
base genetica, e caratterizzata da un processo patologico che si supponeva
diffuso nel parenchima cerebrale, con particolare compromissione della
corteccia, ritenuta la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità
esistente a quel tempo di studio del cervello consisteva nell’osservazione
necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo
studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della neuropatologia, Nissl, Alzheimer e
Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem sul cervello di
pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che si rivelarono
incostanti e non caratterizzanti[8]. In particolare, nel 1897 Alzheimer
segnalò una scomparsa locale di cellule gangliari negli strati esterni della
corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte (1906) descrissero zone di
demielinizzazione focale, il cui reale valore di reperto istopatologico fu
contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche
Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di neurologi illustri, compì
studi neuropatologici sulla struttura del cervello schizofrenico, descrivendo
formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti di preparazione del tessuto.
Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e una degenerazione grassa
degli strati corticali, che non trovarono riscontro in altri studi. Bruetsch,
nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai reumatici nell’encefalo
psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto, postulò un ruolo
eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello schizofrenico una perdita diffusa
di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la significatività del reperto che
si ritenne potesse essere stato generato dalle procedure istologiche impiegate.
Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[9], per superare questo problema, allestirono
uno studio che prevedeva un’accurata indagine seriale degli emisferi cerebrali
mediante sezioni sottili dello spessore di 8 μ in uno studio controllato,
in cui i reperti istologici dei cervelli dei pazienti erano comparati con
identiche sezioni del cervello di persone non affette da psicopatologia e
decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt trovarono in tutti i cervelli
schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani, anche se la
localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un caso all’altro.
I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen),
degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre cinquanta anni durante i quali la
concezione neuropatologica della schizofrenia è stata abbandonata in luogo di
teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali e comportamentali, si è tornati
su più solide basi, fornite dalle metodiche di neuroimmagine, dalla nuova
genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare e neurochimica, a concepire
le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni del cervello[10]. Dalle differenze nel metabolismo
cerebrale, nell’espressione dei recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli
equilibri fra sistemi neuronici, nelle funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse
dallo studio delle connessioni secondo i metodi del campo specializzato della
connettomica, si dispone di un’imponente raccolta di dati che individua le basi
cerebrali di una fisiopatologia, che non potrebbe essere spiegata nei termini
obsoleti della “reazione maggiore”, contrapposta alla “reazione minore”
costituita dai disturbi d’ansia”[11].
Tornando al problema delle TRAVH, che si ritiene siano causate da un
processo specifico e differente da quello generale alla base della
fisiopatologia schizofrenica priva di questo sintomo, Frederic Sampedro e colleghi hanno
caratterizzato elementi di differenza o cambiamento morfologico
strutturale del cervello nei pazienti affetti da questa particolare forma
di allucinazione uditiva, nel paragone con pazienti psicotici non attualmente
deliranti e volontari di un gruppo di controllo del tutto privi di disturbi
psicopatologici.
In particolare, gli autori dello studio hanno condotto un’analisi strutturale
macroscopica delle “modificazioni” della materia grigia valutando accuratamente
lo spessore corticale e i dati volumetrici sottocorticali. Successivamente
hanno realizzato un’analisi comparativa tra i gruppi sperimentali delle
differenze microstrutturali, usando come tecnica la MDD (mean
diffusivity data) intracorticale e subcorticale.
Quest’ultimo sistema di misura mediante imaging è stato adottato
per rilevare il danno neuronico incipiente, in quanto l’acqua può
diffondere più liberamente nelle regioni con ridotta densità neuronica.
In tal modo sono state rilevate e verificate alterazioni microstrutturali
e macrostrutturali del cervello nei pazienti affetti da TRAVH, che nel campione
erano in numero di 29. Tali alterazioni erano del tutto assenti nei pazienti
psicotici non sofferenti di allucinazioni, in numero di 20, e nelle persone sane
facenti parti del gruppo di controllo, in numero di 27. Interessante da sottolineare
che in alcune regioni chiave per la fisiologia psichica, quali la parte
ventrale della corteccia anteriore del giro del cingolo (ACC), il nucleo
accumbens (NAcc) e l’ippocampo è stata rilevata nei pazienti affetti
da allucinazioni verbali intrattabili un’alterazione microstrutturale ben
definita, in assenza di alterazioni della macrostruttura. Altro aspetto molto
rilevante è che queste alterazioni microstrutturali erano in stretta
correlazione con la gravità clinica, indicando così il sintomo e il suo stato
di avanzamento o grado di espressione.
Lo studio ha poi rivelato che i pazienti con TRAVH presentavano anche un
deterioramento legato all’età molto accentuato rispetto ai controlli e un’anomala
perdita longitudinale di integrità della corteccia cerebrale nel
corso di un periodo di un solo anno solare.
Questi esiti dello studio sono più che sufficienti ad offrire un profilo
del ruolo potenziale di biomarker del danno microstrutturale rilevabile
mediante imaging per la diagnosi e il monitoraggio sintomatologico nei
pazienti affetti schizofrenia.
Frederic Sampedro e colleghi sottolineano che questi specifici rilievi
effettuabili mediante neuroimaging possono essere impiegati sia per
rilevare che per monitorare lievi cambiamenti nella compagine pirenoforica grigia
in regioni critiche e perciò rilevanti del cervello, quali possono essere i
bersagli della stimolazione cerebrale profonda (DBS, deep brain stimulation)
adottata, oltre che nel Parkinson, in vari altre patologie cerebrali.
Infine, si può desumere da quanto emerso, almeno per questi 29 pazienti
del campione, che la presenza di TRAVH indica una patologia più aggressiva, più
grave nell’evoluzione e rapida nel peggioramento, suggerendo l’assunzione dei
biomarker microstrutturali per la diagnosi differenziale di una forma di
schizofrenia più grave della media.
L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna Rezzoni
BM&L-29 maggio 2021
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Sommando solo i casi verificati dai colleghi che si
incontrano ai convegni nazionali di psichiatria si giunge ad alcune centinaia
di “falsi positivi” in tutta Italia. Tra questi, una quota non minoritaria è
costituita da persone che non riferiscono o nascondono ad una indagine
psichiatrica superficiale l’uso frequente o abituale di due o più sostanze
psicotrope.
[2] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[3] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[4] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di
fenotiazinici, butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione
efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti
anni si è consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[5] Cfr. AAVV., Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
DSM-5, American Psychiatric Association, p. 103, American Psychiatric
Publishing, Washington DC 2013.
[6] Note e Notizie 02-11-19
Interazione fra genetica e ambiente nella schizofrenia.
[7] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella
storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali,
elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime
tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[8] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[9] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[10] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[11] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.